lunedì 27 marzo 2017
La Passione di Cristo di Hans Memling
La
Passione di Cristo
di Hans Memling
di Pia Deidda
Questo
dipinto, che ha come soggetto la Passione di nostro Signore, è un
gioiello della pittura fiamminga conservato nella nostra città nel
bellissimo museo, sconosciuto a più, che è la Galleria Sabauda. E'
una delle tante opere, fra soggetti a carattere sacro e ritratti,
dipinte dal pittore Hans Memling attivo a Bruges nella seconda metà
del Quattrocento.
A
prima vista l'immagine può risultare confusa, perché ricca di
personaggi e scene che animano la città e il paesaggio intorno, ma
ad una visione più attenta ci accorgiamo che, mentre lo spazio è
fisso, le scene rappresentate si dispiegano come una narrazione
continua; in questo percorso temporale è sempre presente Cristo,
dall'ingresso a Gerusalemme in alto a sinistra fino all'apparizione
ai discepoli nel lago di Tiberiade dopo la Resurrezione in alto a
destra.
Con
un intento spinto sia dalla fede, sia dalla curiosità, ecco allora
che appare tutto più chiaro e siamo chiamati a ricercare le ventuno
scene che vi sono rappresentate.
Proviamo
ad immedesimarci nei committenti, i coniugi fiorentini Portinari, che
richiesero l'opera e si fecero rappresentare in basso inginocchiati
ai due lati del dipinto: possiamo utilizzare questa visione non solo
per fini artistico culturali ma devozionali? Loro lo fecero e il
dipinto divenne un mezzo per ripercorrere in preghiera la via Crucis.
La Parola si è fatta viva, il Cristo è divenuto realtà. La città
infatti non è la Gerusalemme dell'epoca di Gesù ma è una città
fiamminga contemporanea al pittore; l'evento sacro non ha limiti
temporali ma si offre come Parola per l'uomo di tutti i tempi. La tecnica pittorica minuziosa, fin nei più piccoli
dettagli, crea uno spazio umano dove l'incontro con il Cristo diventa
concreto e reale, esperibile.
Hans
Memling, Passione di Cristo, 1470-1471, olio su tavola, 56,7× 92,2
cm, Torino, Galleria Sabauda
venerdì 10 marzo 2017
Racconto di Pia Deidda "Ti camminerò accanto"
A settembre saranno 40 anni (1977-2017)
Scrivevo nel 2007:
In questo mese di Ottobre festeggio l'anniversario dei miei trent'anni a Torino, città che ho adottato e che mi ha adottato. Città a cui ho dato tanto, città che mi ha dato tanto. Voglio condividere con le persone a me più care un momento di questa vita. Ho scritto un racconto. Come tutti i racconti potrebbe essere inventato, frutto della fantasia, o potrebbe essere tutto vero. Chi mi conosce saprà individuarne la verità. Anzi la Verità.
Esco dal cancello del Politecnico che dà su Corso Duca degli Abruzzi. Ho in mano il certificato che documenta
la mia iscrizione alla Facoltà di Architettura. Mi guardo intorno, l'edificio è grande, immenso, grigio. Mi guardo intorno
il corso è grande, immenso, grigio. Pochi giovani studenti stazionano nell'atrio parlando, i più invece corrono con
ventiquattrore straripanti, passano veloci rasente i muri, hanno una sola meta – lo capirò più tardi – lo studio “matto e
disperatissimo”. Riesco ad individuare tra la folla, che entra ed esce vertiginosamente, i docenti, i quali hanno passo più
lento, stanco, spento, ingobbito.
E' un Ottobre caldo, come sarà tutto quest'inverno dell'anno accademico del 1977. Mi ero predisposta ai tanto
decantati freddi e nebbiosi inverni del Nord, invece la mia leggera giacca di panno sfoderato mi accompagnerà fino a
primavera. Quell'anno accademico sarà caldo anche per altri motivi, le Brigate Rosse, il rapimento di Aldo Moro, gli
scioperi operai e studenteschi.
Mi guardo intorno e mi scopro sola in questa moltitudine frenetica che aspira ad un futuro altisonante con il
titolo d'ingegnere o d'architetto. Ho solo diciannove anni, la voglia di cominciare, il desiderio di autonomia, il coraggio
di partire da un piccolo paesino della Sardegna per arrivare in una Torino che mi promette una vita più viva e un corso
di studi che mi spalancherà ad orizzonti più ampi della mia vallata ogliastrina. La facoltà di Architettura non era mai
stata attivata a Cagliari, molti giovani come me sono “costretti a venire in continente”. Ma il mio partire non è una
costrizione, anzi la considero una scelta per diventare finalmente grande, per staccarmi da una famiglia forte dove il
troppo affetto rischia di stritolarmi, una personale sfida alle mie tante insicurezze.
Ma mi guardo intorno e mi sento sola, la città è grande e non ho umani appigli su cui confidare. Veramente un
umano appiglio l'avevo, o credevo di averlo, ma a Settembre quando ero andata la prima volta ad iscrivermi, F. mi
aveva mollato dopo il terzo giorno dal mio arrivo, lasciandomi in un dolore così profondo che solo scrivendo un
romanzo d'amore alla maniera di certi romantici francesi dell'Ottocento potrei riuscire a descriverlo. Ma non è questo né
il momento né il luogo. Avevo scelto Torino e non Roma, o Firenze, anche perchè c'era lui, per me era un'ancora, per lui
ero una zavorra.
Ma mi guardo intorno e mi sento sola, percorro Corso Duca degli Abruzzi alla ricerca del tram 1 che gira verso
Corso Vittorio, una lunga strada alberata, una delle tante lunghe strade alberate di Torino che si incrociano
ortogonalmente, che danno l'illusione dell' equilibrio e invece ti creano un iniziale disorientamento con il loro eccessivo
ordine. Mi devo recare alla fine del Corso, all'Ufficio Abbonamenti dell'ATM per fare il biglietto annuale studentesco
che mi permetterà di viaggiare su tutte le linee autofilotranviarie della città, qualcuno mi dice che si trova vicino al
Parco del Valentino.
A destra, a sinistra, più in là, più in qua, rumore, folla, l'odore acre dello smog, confusione, vertigini, senso di
smarrimento. Riesco a raggiungere il tram, salgo, chiedo al bigliettaio - presenza non più presente nel nostro oggi - dove
devo scendere. Un ragazzo, forse salito alla mia stessa fermata sul tram, si accosta e dice che anche lui sta cercando
l'ufficio dell'ATM, facciamo la strada insieme?
Incominciamo a parlare, si presenta - il tempo e la non consapevolezza di ciò che mi stava accadendo hanno
obliterato il suo nome, ma mi piacerebbe chiamarlo Raffaele - viene da un paesino del Piemonte, studierà agraria. Ha un
bel viso solare, occhi sereni e limpidi, non sto sulle mie, come avrei fatto normalmente con uno sconosciuto, ma mi
ispira fiducia e mi sento subito a mio agio; sono contenta di condividere con lui questa esperienza di comune
spaesamento e di indeterminatezza.
Arriviamo all'Ufficio Abbonamenti e troviamo una lunga coda, tanti universitari si sono riversati a Torino in
questi giorni perchè stanno per incominciare le lezioni. Sono questi anche gli anni in cui tanti ragazzi vengono dal Sud
per studiare a Torino perchè ci sono i parenti che ospitano, per il prestigio delle sue facoltà, per la voglia di evadere dal
paesello.Ci mettiamo in fila e continuiamo a parlare, è come se ci fossimo conosciuti da sempre, è come se fossimo
amici da una vita.
Si affianca una ragazzina e si mette a parlare con noi - chiamiamola Michela perchè anche di lei la memoria ha
obnubilato il nome – dice di essere di Torino e di fare l'aiuto parrucchiera. Anche se non ha studiato sembra sveglia e
molto intelligente. Nel discorrere dico che devo comprare un phon e un asciugamano grande, mi dice che mi
accompagnerà da suo zio che ha un banchetto a Porta Palazzo. La fila pian piano finisce, arriva il nostro turno e
facciamo i nostri abbonamenti. Io sono l'ultima e loro mi aspettano; usciamo ed è naturale continuare a parlare tutti e tre
insieme. Andiamo a piedi fino a Porta Palazzo, una bella passeggiata molto lunga, fatta di chiacchiere, fatta di
compagnia.
A Porta Palazzo faccio gli acquisti e sembra naturale che si continui tutti insieme a camminare per la mia
strada. Arriviamo al pensionato dove avevo preso soggiorno e ci salutiamo sul portone, senza prendere i rispettivi
indirizzi e numeri di telefono, come se fosse inutile, come se già li conoscessimo, come se ci dovessimo vedere di
nuovo il giorno dopo. Sento dentro di me un senso di protezione, non più di solitudine. Non ci siamo più rivisti.
Solo a distanza di tempo ho maturato la consapevolezza che quell'incontro era stato qualcosa di molto grande e
importante. Mi sono stati messi a fianco due angeli che mi hanno accompagnato, condividendo e custodendo una parte
del mio cammino.
(P.D. 2007)
“Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno perchè non inciampi nella pietra il tuo piede” (Salmo 91,11s)
Giovanni Antonio Galli detto Lo Spadarino, L'Angelo Custode, XVII sec cm 200x150 (esclusa la centina) olio su tela, Rieti, Chiesa di San Rufo
Scrivevo nel 2007:
In questo mese di Ottobre festeggio l'anniversario dei miei trent'anni a Torino, città che ho adottato e che mi ha adottato. Città a cui ho dato tanto, città che mi ha dato tanto. Voglio condividere con le persone a me più care un momento di questa vita. Ho scritto un racconto. Come tutti i racconti potrebbe essere inventato, frutto della fantasia, o potrebbe essere tutto vero. Chi mi conosce saprà individuarne la verità. Anzi la Verità.
TI CAMMINERO' ACCANTO
(Torino, 1977-2007)
(P.D. 2007)
“Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno perchè non inciampi nella pietra il tuo piede” (Salmo 91,11s)
Giovanni Antonio Galli detto Lo Spadarino, L'Angelo Custode, XVII sec cm 200x150 (esclusa la centina) olio su tela, Rieti, Chiesa di San Rufo
venerdì 3 marzo 2017
Poesia di Pia Deidda "Testamento biologico n.2"
TESTAMENTO
BIOLOGICO
n.2
Come
oscura nebbia
la
vita spesso appare
a
corpo divenuto prigione
di
umana sofferenza.
La
forza fatica a sostenere
dell'animo
la speranza
perduta
nell'angoscia
in
baratro di dolore.
Sostienimi
o spirito d'amore
se mai
verrà quel giorno
quando
la fragilità sarà d'oblio
al
fascino del nostro incontro.
A
bellezza eterna,
non a
tenebra, io volgo.
©
Pia Deidda 2017
Dipinto:
John
Bridges, Guarigione della suocera di Pietro, XIX sec.
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