Guardò fuori stando sulla bassa imboccatura della grotta. Amava quella terra, i verdi intensi dei suoi vasti boschi, le bianche montagne calcaree erose a picco sulle strette valli, gli arbusti che vi crescevano a stento creando asimmetriche macchie di verde, le sue ricche fonti, i ruscelli con le loro energiche acque, i laghetti che si formavano là dove grossi massi ne ostacolavano il fluire. Amava i profumi che si spandevano nell'aria; in tutte le stagioni predominavano le fragranze del timo selvatico e della felce.
Sì! Sorrideva alla sua libertà. La libertà ottenuta in quel momento le permetteva di vivere di quella terra, di quei colori, di quei profumi.
Mentre pregustava queste sensazioni incominciò a inoltrarsi nel bosco, dimenticandosi la grotta, le sorelle, le loro attività, la recente panificazione, perdendo così la nozione di tempo e di spazio. Camminò a lungo nel bosco ed ebbe la fortuna di fare tanti piacevoli incontri. Vide una mamma cinghiale con i figlioletti al seguito, un muflone solenne nel suo portamento che era sceso dalla montagna per abbeverarsi ad un ruscello, una fiammeggiante volpe distratta dal passare di una ignara lepre. Come adorava quelle creature; esse sì che vivevano veramente lo stato di libertà.
Quando il fitto del bosco glielo permetteva alzava gli occhi per scrutare il cielo, che formava azzurre finestrelle fra il verde scuro delle fronde, e vedere il volo di un astore o, un'altra volta, di un gheppio. Loro, come lei, avevano il dono del volo.
«E, se andassi a lavarmi? Togliermi questo odore di legna bruciata dai capelli?» pensò e mentre lo diceva era già diretta alla cascata in fondo alla stretta valle. Si fermò soltanto a raccogliere viole e ciclamini nel sottobosco, peonie in una radura allo scoperto. Avrebbe strofinato i fiori sui capelli e sulla pelle mentre si lavava.
Arrivò giù al ruscello che era tardo pomeriggio, lontano si sentivano le campanelle delle pecore che tornavano agli ovili. Si tolse gli abiti, entrò nell'acqua del ruscello e si diresse verso la cascatella che, compiendo un salto di qualche metro, veniva a formare una doccia naturale. S'immerse nel freddo getto e alzando le braccia si stiracchiò. La sensazione fu piacevole, tutti i muscoli dispiegarono il torpore, acquistando una nuova energia. Le alucce si afflosciarono appesantite dall'azione forte dell'acqua che cadeva dall'alto.
«Ah, che delizia! Ci voleva proprio dopo tutte quelle ore passate al chiuso e al caldo!».
Nel frattempo il profumo dei fiori, che andava spalmando in tutto il corpo, si diffondeva nell'aria ed era assorbito dalla pelle e dai capelli.
E, incominciò a cantare. Era un canto antico che ricordava tempi lontani, che parlava di uomini intrepidi ed eroici, di un giardino dai pomi d'oro, di grandi fortezze turrite, di janas regine, di janas adorate come divinità. Era una voce soave e melodiosa, a tratti vibrante. Sarebbe entrata nel cuore se qualcuno l'avesse sentita. Il canto delle janas, è risaputo, ammalia gli uomini.
« Che scimunita! Che scìmpra! Che tzéga!» avrebbero detto le sorelle se solo l'avessero sentita.
Ma lo stavano dicendo lo stesso in quel momento perché si era fatto molto tardi, lei non era ancora ritornata e non era nemmeno nei paraggi.
E, mentre Cicytella cantava spensierata incurante di quello che stava accadendo, le sorelle mugugnando mangiavano la frittata con cipolle.
da: L'ultima jana, cap.4
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