sabato 25 aprile 2020

Racconto di Pia Deidda "Di questa vita grigia"


DI QUESTA VITA GRIGIA
di Pia Deidda

     Lisenda dispose le matassine di filo da ricamo di puro cotone egiziano davanti a sé sul ripiano grigio del tavolo appena sgombrato dai piatti della cena e lindo dalle briciole e rimasugli bisunti di carne e fagioli lasciati dal marito e dai figli che avevano divorato la cena affamati e famelici come sempre. Lo spezzatino con legumi era la specialità di cui andava fiera, cotto a fuoco lento per ore sul fornello della vecchia cucina economica.
     Fuori era salita, all'improvviso, una fitta nebbia che aveva avvolto gelida gli alberi dell'orto e dato, all'unico lampione sulla strada, una luce incolore.
    Lisenda non si scoraggiò, nella cucina ancora permaneva il caldo aromatico dei cibi e della poca legna rimasta a bruciare nella stufa.
     Divise i fili rosa, gialli e verdi, carichi di vitalità e luminosità da quelli grigi, marroni e neri così tetri ai suoi occhi.
     Doveva scegliere il colore più adatto per ricamare un taglio prezioso di tela di bisso che comare Gesuina le aveva regalato furtiva - “senza che lo sappia mio marito mi raccomando che faceva parte del corredo di mia suocera!”- per sdebitarsi di certi pizzi che Lisenda le aveva fatto al tombolo.
     Aveva deciso, per la prima volta, nella sua mediocre vita, di cucire qualcosa per sé. Solo per sé. Un capo che appartenesse a lei sola.
     Eccitata ne pregustava la sensazione, morbida e al contempo fresca, di quella serica stoffa che provocava un brivido sulla sua ancora giovane pelle.
     Già s'immaginava, prendevano vita nella sua mente creativa e vivace, i decori che sarebbero andati ad abbellire la leggera sottoveste con scollo tondo profondo e spalline, forse macramè.
     L'avrebbe tenuta nascosta sotto l'ampio abbigliamento che era costituito da un'ampia blusa bianca e una lunga gonna plissettata di pesante orbace grigio scuro. Sarebbe stato un piacevole segreto svelato solo alla sua intimità.
     Appena sentì un rumore provenire dalla stanza adiacente alla cucina spostò, con rapidi gesti meccanici, i fili scartati dentro il cassetto del tavolo e gli altri dentro la tasca del grembiule. Il marito entrò annunciandosi con un grosso rutto che testimoniava la digestione difficile, causa dell'abbondante spezzatino che aveva trangugiato veloce senza quasi prendere respiro.
- Cosa fai ancora alzata donna? Tutte le sere la stessa storia. Tanto per sprecare luce elettrica, eh? Vieni a letto subito!
- Sì, sì, vengo Tore. Spengo la luce e arrivo. Ma non è che vuoi acqua e limone per digerire?
- E per chi mi hai preso, per un frocio? Dammi un po' di mirto piuttosto.
- Vai, te lo porto a letto.
     Lui si trascinò stancamente in camera con passo pesante e Lisenda si alzò sospirando; mise la mano in tasca dove si occultava il suo segreto, come volesse avere la certezza che fosse tutto reale: brutalità e bellezza nella stessa casa.
     Non era stato facile risparmiare i soldi che le avevano permesso di acquistare le matassine; li teneva ben nascosti dentro un barattolo pieno di farina che camuffava il suo piccolo tesoro. Nessuno, fra marito e figli, avrebbero mai pensato di cercarli lì.
     Un accordo segreto con Rosetta, la giovane sposina vicina di casa, più libera di lei di uscire e di andare in merceria, le aveva permesso di avere quei preziosi filati.
     Quale piacere le infondeva sfiorarli! Era qualcosa di soffice e impalpabile che strideva al tocco delle sue mani ruvide e screpolate, rese grigie dall'acqua calda con candeggina e soda del lavaggio alternata a quella fredda del risciacquo; uso quotidiano per lustrare quella cinerina e disadorna casa. Almeno pulita – pensava sempre quando passava lo straccio – anche se povera!
     Aprì la porta della stanza da letto cercando di non fare rumore. Sperava tanto che Tore si fosse già addormentato, ma dalla stanza buia non proveniva il suo russare grave ma aleggiava solo l'odore acre e stantio dell'alito dell'uomo, un misto di aglio e vino acetoso.
- Lisenda allora dai non vieni?
     Lei raccolse quella richiesta con un dolore acuto allo stomaco. In cuor suo sarebbe scappata via, mille e mille volte, mille e mille miglia. Ciò che l'aspettava, tormento non voluto, violenza quotidiana subita, adombrava i suoi desideri più intimi, quelli di una carezza tenera, di una parola dolce, di un sussurro fatto di rispetto. Tutto era mortificazione in quel talamo matrimoniale.
     Ma Lisenda mise la mano nella tasca del grembiule e, saggiandone il contenuto, pensò alle rose che avrebbero adornato la sua sottoveste e le sembrò di sentire il profumo dei fiori aleggiare attorno a lei. S'infilò sotto la coltre, nella beatitudine di questa fantasia, pronta a subire, senza consenso nè partecipazione.
     Lisenda aprì gli occhi alle prime luci dell'alba, il marito ancora russava al suo fianco sollevando la pancia gonfia in una ritmica cadenza che accompagnava un gorgheggiare volgare.
     Si toccò la vulva che ancora bruciava, segno dell'amplesso privo di desiderio e violento. Quando gli uomini di casa sarebbero usciti per recarsi al lavoro avrebbe avuto il tempo di fare abluzioni con acqua e malva e applicare l'unguento alla calendula che le aveva dato comare Nina un giorno che le aveva confessato il suo problema. Venne così a conoscenza che non era la sola a vivere questo disagio ma era un problema condiviso da tante donne nella sua stessa condizione.
     Si alzò cercando di non fare rumore e in cucina si apprestò a preparare la colazione per le quattro bocche fameliche. Come tutte le mattine dispose i piatti, le ciotole e le posate sul tavolo, tagliò fette regolari di pane, dispose al centro il formaggio fresco e la ciotola di miele di castagno, mise il bricco del latte e la moka del caffè sul fuoco che aveva appena acceso. Prese dalla credenza la torta di noci fragrante che aveva preparato il giorno prima; sapeva che i suoi figli ne avrebbero gradito una fetta, anche se riluttanti ad ammetterlo davanti al padre.
- Donna cosa è questa roba?
- E' profumo di torta Tore.
- Cibo da donnette. E sprechi anche le noci, puah!
     Fuori l'aria era ancora bigia e il sole che sorgeva stentava ad intrufolarsi fra le bianche tendine leggere di filet che decoravano la vecchia finestra; lo smalto grigio di questa era ormai scrostato in molti punti.
- E che sono quelle? Mi vuoi far vivere in una casa di bambola? E chissà quanto ti sono costate!
- Tore le ho fatte io! Il filato era ancora quello di mia mamma trovato nel baule che ho ereditato.
- Blah! Roba da donnette. E' pronta la cena?
     Aspettava con ansia il momento in cui si sarebbe trovata finalmente sola in casa; l'avrebbe pulita velocemente ma con diligente attenzione, meticolosa come sempre. Si sarebbe apprestata anche a preparare la cena in modo da avere tutto il pomeriggio libero da dedicare al suo lavoro segreto. Sì, era arrivato il momento tanto atteso, il lavoro predisposto con così grande cura e trepidazione. La tela dorata di bisso avrebbe accolto il suo prezioso ricamo: una ghirlanda curvilinea, tripudio di piccole rose a punto pieno e racemi verdi a punto erba, avrebbe ornato la fascia sul seno.
     “E' mio. Il mio mondo. Il mio segreto. Nessuno violerà con il suo sguardo avido e le sue mani callose e frementi la delicatezza di questo decoro, nessuno profanerà la sua bellezza. Il tenero rosa luminoso dei petali accompagnerà celato, giorno dopo giorno, il grigiore delle mie giornate”, pensa Lisenda quando si appresta appagata al delicato ricamo.


© Pia Deidda 2019


Vilhelm Hammershøi, Interno con donna di spalle (1898; olio su tela, 51,5 x 46 cm; Stoccolma, Nationalmuseum)

lunedì 13 aprile 2020

Poesia di Pia Deidda "Ikebana"






IKEBANA

Fermammo il tempo
il respiro, tacemmo
dolore - delirio - deliquio
Contammo morti
contagiati, affamati
cibo - aria - moto

Cantammo inni,
poi azzittimmo
Giorno pasquale
immoto - muto - vuoto
Sarà ancora passaggio
lento - cosciente – voluto

Innalzammo sculture di fiori
gioco di metafore
uomo - terra - cielo
Misurammo pieni e vuoti
anelando crescita
impennante, in divenire.


© Pia Deidda 2020