giovedì 23 aprile 2009

L'esistenza di Dio e del Male

Quante volte ho sentito dire: «Ma se Dio veramente esistesse perchè permette il male, la malattia, le disgrazie...?». Io ho sempre dato questa risposta, che nasce dalla mia fede: «Dio ci aveva fatti a sua immagine ma noi abbiamo scelto la libertà di aderire al Bene o al Male, abbiamo scelto e preso dall'albero della Conoscenza. Questo è stato il Peccato Originale. Questo mondo imperfetto è lo scotto che dobbiamo pagare perchè ogni giorno scegliamo nella nostra libertà. Abbiamo voluto conoscere oltre il Paradiso Terrestre. Gli antichi questo l'avevano ben capito e ne è una testimonianza il primo libro della Genesi».

Ma so bene che ai miei amici atei, o agnostici, o dubbiosi, questa risposta non basta.

Perchè bisogna partire dalle domande fondamentali: «Ma io credo in Dio? Ma io voglio veramente incontrarlo?».

Riporto in questo mio spazio una lettera e la risposta a questa, letta ieri sul quotidiano cattolico Avvenire (22 Aprile 2009). Tanto per riflettere un po'.

E dedico questo spazio a tutti gli amici che sono nel dubbio o sono alla ricerca di una risposta che tarda a venire.

PRESENZA DEL MALE, ESISTENZA DI DIO, MISTERO DELL'UOMO

dalla rubrica: Il direttore risponde

Caro Direttore,Dio non c'è? Non ce n'è bisogno? È più onesto e dignitoso che non ci sia, come sostiene Augias, l'ultimo ateologo? Oppure c'è? E alfa e omega, come sostiene Mancuso, l'ultimo teologo? In un dialogo senza altezze, dove l'uno e l'altro finiscono per essere opposti che si toccano, la cultura decade. All' Aquila, padre Luciano Antonelli, frate minore cappuccino del convento Santa Chiara (gioiello del '400 andato in pezzi), corre con l'ampollina dell' olio degli infermi e, piangendo tra i corpicini dei bambini, li assolve dai peccati (di grazia, quali?) e tutti gli chiedono: «Dov'è Dio?». Il Padre, tra il dolore e lo sconcerto dei presenti, risponde: «Dio è qui, non se n'è andato». Ma di quale Dio parliamo noi uomini? Del Dio buono dei miracoli o del Dio che non avrebbe l'onnipotenza per fermare il male? Se ferma il tumore di un nostro caro, Dio c'è. Se non ferma il terremoto, Dio non c'è. «Si Deus est unde malum?» (se c'è Dio, perché il male? Da dove viene il male?). Ferdinando Camon, nelle ultime righe della sua "Conversazione con Primo Levi" chiede all'interlocutore: «Auschwitz è la prova della non-esistenza di Dio?». Levi risponde: «C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio». E sul manoscritto, a matita, annota: «Non trovo un soluzione al dilemma, la cerco ma non la trovo». E se Dio non avesse nulla a che vedere con le chiacchiere degli uomini? E se Dio non fosse ciò che abbiamo sempre ritenuto, a nostro uso e consumo? «E se un Dio non ci venisse a salvare?», chiedono Mauricio Y.Marassi e Jisò Forzani. L'uomo non sa niente di sé ma parla di Dio, (s)ragiona su Dio. Corre in soccorso del proprio simile, l'uomo, quando tutto è crollato, ma si ritrae quando è chiamato a tendere la mano in tempi di normalità. Per agire, per cooperare, ha bisogno di pianti disperati, l'uomo. E' vuoto d'amore, l'uomo. E malato, l'uomo. E capace di tutto, l'uomo. Auschwitz l'ha fatto l'uomo (cioè noi, ciascuno di noi) nel pieno della propria libertà. E' uno strano essere, l'uomo. Prima di chiederci se c'è Dio, dovremmo chiederci: e l'uomo? C'è l'uomo?

Davide D'Alessandro, Vasto (Ch)

La sua lettera, caro Davide, è accorata e drammatica, come s'addice all'argomento. La pubblico volentieri perché essa dà voce - senza chiudere preventivamente alcun varco - alla domanda che inevitabilmente ci prende quando la nostra precarietà si manifesta in modo traumatico, imponente, senza appello, com'è accaduto in questi giorni con la catastrofe in Abruzzo, e come avviene in tutte le circostanze in cui si conferma l'esistenza del male e dell'imperfezione, a cui neppure la natura sfugge. In tali frangenti, allo sguardo non sostenuto dalla fede e dalla speranza, alla persona troppo provata dal dolore, la natura può giustamente apparire più «matrigna» che madre, come sostenne Giacomo Leopardi. Probabilmente tutte queste possibili obiezioni, profondamente comprensibili, erano ben presenti a Pascal quando nei «Pensieri» elaborò il ragionamento della celeberrima «scommessa» sull'esistenza di Dio, uno dei cardini dell' apologetica cristiana, non solo moderna. Qui, egli afferma innanzitutto che i principi cristiani coincidono con i migliori principi umani e perciò vivere da cristiani (anche nell'ipotetica «assenza di Dio») equivale a vivere nel modo più umano possibile. E comunque la posta in gioco, spiega il filosofo, vale il nostro rischiare: infatti, «scommettere» su Dio non significa rischiare su qualcosa di incerto, di aleatorio (come avviene in una qualsiasi scommessa), perché la posta in palio è la vita eterna: « ... C'è proprio una vita infinita, infinitamente felice da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quello che voi mettete in gioco è finito». La bellezza del creato può essere un indizio dell' esistenza di Dio. Ma, come vediamo, neppure il creato esclude la morte. Quel frate ha avuto ragione nel rispondere così alla domanda - piena di pianto struggente - di tanta gente piegata dalla prova: il volto di Dio è, e rimane, un volto benigno, perché è quello - sempre misericordioso - di Cristo. Ce lo rammenta un passo bellissimo e incoraggiante del primo capitolo dell'enciclica «Dives in misericordia» di Papa Giovanni Paolo II: « .. Dio, che" abita una luce inaccessibile", parla nello stesso tempo all'uomo col linguaggio di tutto il cosmo: "Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità". Questa indiretta e imperfetta conoscenza, opera dell'intelletto che cerca Dio per mezzo delle creature attraverso il mondo visibile, non è ancora "visione del Padre". "Dio nessuno l'ha mai visto", scrive san Giovanni per dar maggior rilievo alla verità secondo cui "proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, 1ui lo ha rivelato". Questa "rivelazione" manifesta Dio nell'insondabile mistero del suo essere - uno e trino - circondato di "1uce inaccessibile". Mediante questa “rivelazione” di Cristo, tuttavia, conosciamo Dio innanzitutto nel suo rapporto di amore verso l'uomo: nella sua "filantropia"». Di questa filantropia di Dio ci sono testimoni, anche nell' ora del più cupo sconforto, la compagnia della Chiesa e le infinite opere di carità e di abnegazione per i fratelli di cui tanti uomini si mostrano capaci.



mercoledì 22 aprile 2009

Un centesimo per l'Abruzzo

Finora non ho mandato nemmeno un euro per l'Abruzzo. Ho fatto passare questi giorni chiedendomi il perchè di questa mia azione. Qualcosa non mi funzionava ... Oggi mi è stato inviato da una amica questo intervento di Giacomo di Gerolamo su www.Marsala.it. Mi ha fatto riflettere.
Sono però pronti due libri per la trasmissione di RADIO3 Fahrenheit, verranno recapitati agli amici abruzzesi nelle tendopoli.
FAHRENHEIT - RADIO 3, Via Asiago, 10 - 09195 ROMA


Scusate, ma io non darò neanche un centesimo
di Giacomo di Girolamo
Fonte: www.marsala.it

Scusate, ma io non darò neanche un centesimo di euro a favore di chi raccoglie fondi per le popolazioni terremotate in Abruzzo. So che la mia suona come una bestemmia. E che di solito si sbandiera il contrario, senza il pudore che la carità richiede. Ma io ho deciso. Non telefonerò a nessun numero che mi sottrarrà due euro dal mio conto telefonico, non manderò nessun sms al costo di un euro. Non partiranno bonifici, né versamenti alle poste. Non ho posti letto da offrire, case al mare da destinare a famigliole bisognose, né vecchi vestiti, peraltro ormai passati di moda.

Ho resistito agli appelli dei vip, ai minuti di silenzio dei calciatori, alle testimonianze dei politici, al pianto in diretta del premier. Non mi hanno impressionato i palinsesti travolti, le dirette no - stop, le scritte in sovrimpressione durante gli show della sera. Non do un euro. E credo che questo sia il più grande gesto di civiltà, che in questo momento, da italiano, io possa fare.

Non do un euro perché è la beneficienza che rovina questo Paese, lo stereotipo dell'italiano generoso, del popolo pasticcione che ne combina di cotte e di crude, e poi però sa farsi perdonare tutto con questi slanci nei momenti delle tragedie. Ecco, io sono stanco di questa Italia. Non voglio che si perdoni più nulla. La generosità, purtroppo, la beneficienza, fa da pretesto. Siamo ancora lì, fermi sull'orlo del pozzo di Alfredino, a vedere come va a finire, stringendoci l'uno con l'altro. Soffriamo (e offriamo) una compassione autentica. Ma non ci siamo mossi di un centimetro.

Eppure penso che le tragedie, tutte, possono essere prevenute. I pozzi coperti. Le responsabilità accertate. I danni riparati in poco tempo. Non do una lira, perché pago già le tasse. E sono tante. E in queste tasse ci sono già dentro i soldi per la ricostruzione, per gli aiuti, per la protezione civile. Che vengono sempre spesi per fare altro. E quindi ogni volta la
Protezione Civile chiede soldi agli italiani. E io dico no. Si rivolgano invece ai tanti eccellenti evasori che attraversano l'economia del nostro Paese.

E nelle mie tasse c'è previsto anche il pagamento di tribunali che dovrebbero accertare chi specula sulla sicurezza degli edifici, e dovrebbero farlo prima che succedano le catastrofi. Con le mie tasse pago anche una classe politica, tutta, ad ogni livello, che non riesce a fare nulla, ma proprio nulla, che non sia passerella.

C'è andato pure il presidente della Regione Siciliana, Lombardo, a visitare i posti terremotati. In un viaggio pagato - come tutti gli altri - da noi contribuenti. Ma a fare cosa? Ce n'era proprio bisogno? Avrei potuto anche uscirlo, un euro, forse due.
Poi Berlusconi ha parlato di "new town" e io ho pensato a Milano 2 , al lago dei cigni, e al neologismo: "new town". Dove l'ha preso? Dove l'ha letto? Da quanto tempo l'aveva in mente?

Il tempo del dolore non può essere scandito dal silenzio, ma tutto deve essere masticato, riprodotto, ad uso e consumo degli spettatori. Ecco come nasce "new town". E' un brand. Come la gomma del ponte.

Avrei potuto scucirlo qualche centesimo. Poi ho visto addirittura Schifani, nei posti del terremoto. Il Presidente del Senato dice che "in questo momento serve l'unità di tutta la politica". Evviva. Ma io non sto con voi, perché io non sono come voi, io lavoro, non campo di politica, alle spalle della comunità. E poi mentre voi, voi tutti, avete responsabilità su quello che è successo, perché governate con diverse forme - da generazioni - gli italiani e il suolo che calpestano, io non ho colpa di nulla. Anzi, io sono per la giustizia. Voi siete per una solidarietà che copra le amnesie di una giustizia che non c'è.

Io non lo do, l'euro. Perché mi sono ricordato che mia madre, che ha servito lo Stato 40 anni, prende di pensione in un anno quasi quanto Schifani guadagna in un mese. E allora perché io devo uscire questo euro? Per compensare cosa? A proposito. Quando ci fu il Belice i miei lo sentirono eccome quel terremoto. E diedero un po' dei loro risparmi alle popolazioni
terremotate.

Poi ci fu l'Irpinia. E anche lì i miei fecero il bravo e simbolico versamento su conto corrente postale. Per la ricostruzione. E sappiamo tutti come è andata. Dopo l'Irpinia ci fu l'Umbria, e San Giuliano, e di fronte lo strazio della scuola caduta sui bambini non puoi restare indifferente.

Ma ora basta. A che servono gli aiuti se poi si continua a fare sempre come prima? Hanno scoperto, dei bravi giornalisti (ecco come spendere bene un euro: comprando un giornale scritto da bravi giornalisti) che una delle scuole crollate a L'Aquila in realtà era un albergo, che un tratto di penna di un funzionario compiacente aveva trasformato in edificio scolastico, nonostante non ci fossero assolutamente i minimi requisiti di sicurezza per farlo.

Ecco, nella nostra città, Marsala, c'è una scuola, la più popolosa, l'Istituto Tecnico Commerciale, che da 30 anni sta in un edificio che è un albergo trasformato in scuola. Nessun criterio di sicurezza rispettato, un edificio di cartapesta, 600 alunni. La Provincia ha speso quasi 7 milioni di euro d'affitto fino ad ora, per quella scuola, dove - per dirne una - nella palestra lo scorso Ottobre è caduto con lo scirocco (lo scirocco!! Non il terremoto! Lo
scirocco! C'è una scala Mercalli per lo scirocco? O ce la dobbiamo inventare?) il controsoffitto in amianto.

Ecco, in quei milioni di euro c'è, annegato, con gli altri, anche l'euro della mia vergogna per una classe politica che non sa decidere nulla, se non come arricchirsi senza ritegno e fare arricchire per tornaconto. Stavo per digitarlo, l'sms della coscienza a posto, poi al Tg1 hanno
sottolineato gli eccezionali ascolti del giorno prima durante la diretta sul terremoto. E siccome quel servizio pubblico lo pago io, con il canone, ho capito che già era qualcosa se non chiedevo il rimborso del canone per quella bestialità che avevano detto.

Io non do una lira per i paesi terremotati. E non ne voglio se qualcosa succede a me. Voglio solo uno Stato efficiente, dove non comandino i furbi. E siccome so già che così non sarà, penso anche che il terremoto è il gratta e vinci di chi fa politica. Ora tutti hanno l'alibi per non parlare d'altro, ora nessuno potrà criticare il governo o la maggioranza (tutta, anche quella che sta all'opposizione) perché c'è il terremoto. Come l'11 Settembre, il terremoto e l'Abruzzo saranno il paravento per giustificare tutto.

Ci sono migliaia di sprechi di risorse in questo paese, ogni giorno. Se solo volesse davvero, lo Stato saprebbe come risparmiare per aiutare gli sfollati: congelando gli stipendi dei politici per un anno, o quelli dei super manager, accorpando le prossime elezioni europee al referendum. Sono le prime cose che mi vengono in mente. E ogni nuova cosa che penso mi monta sempre più rabbia.

Io non do una lira. E do il più grande aiuto possibile. La mia rabbia, il mio sdegno. Perché rivendico in questi giorni difficili il mio diritto di italiano di avere una casa sicura. E mi nasce un rabbia dentro che diventa pianto, quando sento dire "in Giappone non sarebbe successo", come se i giapponesi hanno scoperto una cosa nuova, come se il know - how del Sol
Levante fosse solo un' esclusiva loro. Ogni studente di ingegneria fresco di laurea sa come si fanno le costruzioni. Glielo fanno dimenticare all'atto pratico.

E io piango di rabbia perché a morire sono sempre i poveracci, e nel frastuono della televisione non c'è neanche un poeta grande come Pasolini a dirci come stanno le cose, a raccogliere il dolore degli ultimi. Li hanno uccisi tutti, i poeti, in questo paese, o li hanno fatti morire di noia. Ma io, qui, oggi, mi sento italiano, povero tra i poveri, e rivendico il
diritto di dire quello che penso.
Come la natura quando muove la terra, d'altronde.

Un motivo in più per non dare quell'obolo

Oggi 23 Aprile è giunta la notizia che il governo ha deciso di postare il G8 dalla Maddalena all'Aquila. Faccio presente che in Sardegna si sta lavorando da tempo con lavoro continuato e tre turni per coprire le 24 ore giornaliere. Progetti, lavori iniziati, lavoratori da pagare e ai quali è stata promesso un lavoro e che lo vedono svanire, imprese che hanno partecipato: tutto va a ramengo.
Non aggiungo altro se non che ritengo questa una scelta inopportuna e inadeguata.

martedì 21 aprile 2009

Oceano stretto di Katia Debora Melis

Una poesia mi piace quando dico a me stessa due cose: «L'ho fatta mia» e «L'avrei voluta scrivere io così!». E di poesie così di Katia Debora Melis ce ne sono tante nella raccolta Oceano Stretto.

Già l'ossimoro del titolo per me è calamita. Oceano = spazio grande, immenso; contrapposto a Stretto = spazio limitato. Le poesie di Katia Debora Melis racchiudono questa contraddizione che non è solo ricerca intellettuale ma esperienza sensoriale e sentimentale.

Guardo le foto della poetessa che posso cogliere in alcuni siti di Internet e faccio fatica a ritrovare in quel viso sorridente e timido tale energia esistenziale. E, dalla sua penna, nascono versi come «ho battuto con forza la testa/su uno scoglio/e si sono staccate risposte/grandi» (Oceano di sogni) che mi rimbalzano nella mente dove la parola «graffia e gioca/carezza e strilla» (Della Notte).

Rimbalzano termini chiave come una morra cinese: pietra, acqua e carta. E le forbici sono le parole che tagliano le emozioni.

Anche la natura partecipa a questi contrasti del cuore e della mente come «rimbomba/adesso/il cigolio del mare/che si è fatto denso/che si è fatto crosta» (Bilanci).

Grazie Katia Debora Melis perchè hai saputo cogliere e offrirci la sintesi poetica; versi che morfologicamente semplici celano la profondità.


La poesia che amo di più.

Nel giorno del ruscello


Aiutami

a trasformare le mie paure in versi,

a uscire dalla nebbia

stando seduti insieme sopra il ponte

nel giorno del ruscello e della sete

e, ascoltando l'acqua,

sentire le sue gocce.


©Katia Debora Melis, Oceano Stretto, 2008


Katia Debora Melis, nata a Milano il 4 Luglio 1973, vive e lavora a Cagliari, dove insegna Materie Letterarie e Latino. Da anni impegnata nella libera ricerca in discipline sardologiche, ha all'attivo pubblicazioni su riviste, comunicazioni in seminari e convegni, accanto alla scrittura di poesie e racconti. Presente in diverse antologie, ha già ottenuto molteplici riconoscimenti letterari. Nel 2007 ha pubblicato la silloge Penombra.


Battistina Meloni è una lettrice che ha avuto la fortuna di conoscere Katia Debora Melis. Da lei ho raccolto queste impressioni.

... Conoscere Katia Debora Melis fornisce una chiave di lettura per le sue poesie. Il viso sorridente di Katia “è” la sua energia esistenziale …. Questa “piccola grande donna” comunica, con la sua persona, quello che, nei i suoi libri, comunica con le parole.


Per Flannery O'Connor

Nell' Avvenire del 18 Aprile 2009 ho trovato questo articolo di Davide Rondoni dal titolo:
Flannery O'Connor parole che bruciano
Ve ne propongo la lettura.

C 'è una donna terribile e affascinante nella letteratura contemporanea. Uno di quei tipi che ti andrebbe veramente di incontrare per farci due chiacchiere, sapendo che mai la darà vinta ai luoghi comuni. Una che non poteva indulgere a niente che non fosse, persino nel lampo estremo di gioia o di terrore, essenziale. Una che trafficava col grottesco e con Dio. E che aveva alcune idee decisamente contro corrente. Sapeva di averle, non si stupiva se era arduo trovare sostenitori. Ma non era il tipo da scoraggiarsi. Del resto, la tenacia non doveva mancare a una che da ragazzina aveva insegnato a un pollo a camminare all'indietro e che era malata di un terribile male che la spense a 39 anni dopo una vita artisticamente fertilissima. Flannery O'Connor è un nome che ormai circola diffusamente. Non solo perché a lei, concittadina di Oliver Hardy (il mitico Olio della coppia di comici) hanno reso tributo il cinema di Houston, la penna di Carver, e la musica di diversi rocker americani. Non solo perché senza O'Connor probabilmente non avremmo Cormac McCarthy. E non solo perché certi lettori dalla mente a radar - come Bertolucci - parlarono di lei in Italia ben prima che gli importanti studi o gli interventi di Elisa Buzzi, di AntonioSpadaro, di Ottavio Fatica
(suo traduttore, come M.I. Caramella) di Luca Doninelli, di Andrea Monda e di Carola Susani arrivassero a illustrare questo profilo. Il suo nome gira perché i suoi racconti, per così dire, ti lasciano sul posto. A fissare l'aria o chissà cosa davanti alla sedia dove sei stato a leggere. Ti sembra di aver visto qualcosa. Per lei un racconto deve avere innanzitutto una qualità di visione. Del resto,
diceva, «Per lo scrittore di narrativa tutto trova verifica nell'occhio». E aggiunge altrove che l'occhio è «organo che alla fin fine implica l'intera personalità, e quanto più mondo riesce a contenere. Implica il giudizio. Il giudizio è una cosa che ha origine nell'atto di visione, e quando non parte da lì, o ne è scisso, allora nella mente esiste una confusione che si trasferisce nel racconto». L'occhio ha radici nel cuore, secondo Guardini. «Comunque sia, per il cattolico si diramano addirittura fino a quelle profondità del mistero rispetto alle quali il mondo moderno è diviso: una parte cercando di rimuoverlo, mentre l'altra cerca di riscoprirlo in discipline che, dalla persona, pretendono meno della religione». Non amava la teoria intorno all' arte - che chiamava, con san Tommaso, "ragione in atto", subito osservando quanto nella nostra epoca il termine ragione ha sofferto una restrizione. I racconti della O'Connor, cattolica e molto attenta nell'indagare i rapporti tra fede e narrativa, spesso non finiscono bene. Non sopportava il fatto che molti lettori, compreso il lettore medio cattolico, si aspettassero dei finali consolatori. Non sopportava il dolciastro. Come non lo aveva sopportato Péguy. Lo scrittore, diceva lei, racconta il mondo che è senza far finta di non vedere che molte cose finiscono male, ma, se dotato di un certo senso del mistero, vedrà come nelle vicende agisca il misterioso dramma di apertura o chiusura alla grazia. E la qualità morale di un racconto, osservò più volte, non sta in tesi o in fervorini esposti, ma in quel che Henry James chiamava quantità di «vita di sentita», percepibile drammaticamente nella storia.
Questi furono alcuni dei motivi che spinsero don Giussani, studioso del protestantesimo americano, ad accogliere nella collana che dirigeva presso Rizzoli il volume a oggi più venduto della O'Connor in Italia: un' antologia di racconti e di scritti, La schiena di Parker. Lei non sopportava molte cose: gli scrittori sciatti, per esempio. A chi le chiedeva se le scuole di scrittura e i corsi universitari non
avessero tarpato le ali a troppi aspiranti scrittori, rispondeva che l'avevano fatto a troppo pochi. E dei suoi contemporanei della beat generation osservò acutamente la componente spirituale del movimento, accusandola di essere al proposito "facile", incline a misticismo a basso costo. Al proposito ebbe un'intuizione geniale quando disse che l'interesse di molti alle pratiche orientali si deve al fatto che un cristianesimo senza centralità dell'incarnazione e senza Chiesa somiglia parecchio allo zen. E che, se il protestantesimo avesse avuto forme monacali probabilmente queste avrebbero attirato l'attenzione che invece deviò sullo zen. La sua attenzione ironica (e davvero allegra, direi, d'un'allegria da santi, da traversatori del "territorio del diavolo") e l'acutezza del suo sguardo rendono memorabili alcuni dei suoi racconti. Incisi nel cuoio del cuore, e nel legno delle anime che si lasciano segnare.

martedì 7 aprile 2009

Cosa dite dell'ultima jana, parte quinta

Ideare una storia, scriverla, attendere la sua venuta alla luce, è un pò una gestazione, un parto. E, quando viene alla luce, c'è la gioia di vederla.
Prendere il libro in mano una volta stampato è una grande emozione. Lo si soppesa, lo si rigira, lo si annusa, quasi lo si bacia. Come neanche fosse un figlio! E poi quando incomincia a circolare, ad essere letto, avviene il battesimo. Il libro entra nella comunità dei lettori. E diventa felicità, soddisfazione, anche un po' orgoglio, sentire i complimenti che ad esso vengono rivolti (pur accettando le dovute critiche, che contribuiscono a fare crescere!).

Tanti lettori de L'ultima jana mi stanno contattando e mi rendono questa felicità. Ecco perchè trascrivo sul blog alcuni commenti. Ieri ne è arrivato un'altro per posta elettronica e con voi lo condivido.

Carissima Pia;

ho letto il libro "L'ultima Jana" e ne sono rimasto affascinato.

A dire il vero non ho letto il libro ma l' ho vissuto in ogni suo preciso momento, sentendo su di me tutte le sensazioni che si possono provare in tutti quei meravigliosi contesti. Ho vissuto la storia di Puro Amore tra Elias e Cicytella, ho respirato la purezza dell'aria della nostra montagna, assaporato sul mio palato tutte le prelibatezze che le quattro sorelle hanno sapientemente cucinato (meno male che non ho aumentato di peso). Lei è riuscita a dare vita tra le righe, poiché ancora oggi vivo determinati momenti che la lettura del libro mi ha regalato. Un libro che raccoglie a 360° il contesto umano in ogni sua emozione. Fare i complimenti sembra quasi superfluo, poiché il creatore di un capolavoro simile, merita il non plus ultra dei complimenti. Io dico grazie e ancora grazie per avermi regalato momenti di pura magia, di pura estasi gioiosa, portandomi in un viaggio nel tempo, nella bellezza e nella profondità del sentimento umano, per non parlare dell'aspetto culinario, ricercato e perfettamente descritto in ogni singola ricetta.

Mi scuso se mi presento solo ora, ma ero troppo preso dalle emozioni per ricordarmi di presentarmi ...

Mi chiamo Paolo, sono sardo e vivo in Sardegna, una Terra che Amo e di cui sono consapevole è una Terra particolare per quanto riguarda la Creatività. Una Terra dove ancora è radicato il culto della Dea Madre, della Dea Mediterranea, che altro non è che l'Amore Materno di Dio.

Sono un praticante di Yoga, lo Yoga di Sahaja Yoga (http://www.sahajayoga.it http://www.sahajayoga.org), e l'anno scorso in occasione di un seminario nazionale, il gruppo della Sardegna ha preparato un lavoro (video),che riguarda proprio il culto della Dea Madre in Sardegna, e l'avvento di Sahaja Yoga in Sardegna, con la visita della Sua Creatrice Shri Mataji Nirmala Devi; Donna Indiana che dal 1970 gira tutto il Mondo a divulgare questa conoscenza.

Ora non desidero fare pubblicità, ma desidero poterle far avere in dono una copia del video che abbiamo fatto l'anno scorso, per così ringraziare del bellissimo dono che Lei ha fatto a me con le emozioni che tuttora vivo nell'aver letto L'ultima Jana. Con ammirazione ...

Paolo Cara

mercoledì 1 aprile 2009

Le Chiese Campestri del Medio Campidano

Pubblicazione guida e Mostra fotografica a Villanovaforru sul tema delle chiese campestri in Sardegna

a cura di Maurizio Serra
Associazione Culturale Nostra Sardegna
www.chiesecampestri.it

Questa pubblicazione è la prima di una serie dedicata alle chiese campestri delle Province della Sardegna. si tratta di uno sviluppo su stampa, che ha preso avvio dal progetto intrapreso dal sito www.chiesecampestri.it creato con l'intento di censire tutti gli edifici religiosi rurali. Il proposito di questo modesto lavoro, è contribuire alla conoscenza di un aspetto diffuso ma poco conosciuto, espressione di fede, tradizione ed architettura, che sono
caratteristiche tipiche del paesaggio e della cultura delle nostre campagne.
Nel Medio Campidano si trovano 41 chiese campestri tuttora in attività e 13 ridotte a rudere.


COMUNE DI VILLANOVAFORRU

Provincia del Medio Campidano

OGGETTO: Mostra “Le Chiese Campestri del Medio Campidano”

Il Comune di Villanovaforru in collaborazione con l’Associazione Culturale Nostra Sardegna organizza una mostra d’immagini fotografiche sulle “Chiese Campestri della Provincia del Medio Campidano”.

L’esposizione, trae la sua ispirazione dal sito www.chiesecampestri.it, nato con l’intento di catalogare tutti i luoghi di culto campestri della Sardegna e diventato un contenitore di valenza internazionale, l’unico in Italia e forse anche in Europa, dedicato interamente a questo argomento. L’evento, patrocinato dalla Provincia del Medio Campidano, verrà inaugurato sabato 4 aprile alle ore 18 nella Sala Mostre Temporanee del Museo Civico di “Genna Maria” e proseguirà fino al 31 maggio 2009. L’intento è quello di promuovere la conoscenza di questi monumenti, importanti dal punto di vista storico, architettonico nonché religioso, per preservarli e valorizzarli.

Anche nelle campagne del Medio Campidano sono infatti numerose le chiesette, alcune delle quali sconosciute perfino agli stessi abitanti della Provincia; risalenti a secoli or sono o costruite in epoca moderna, tutte hanno una loro storia e una loro particolarità, ma allo stesso tempo qualcosa le accomuna: la campagna che le circonda e che si anima in occasione delle feste religiose, che ancora oggi sono manifestazioni di profonda devozione.

I visitatori percorreranno, attraverso oltre cinquanta immagini, un suggestivo itinerario campestre alla scoperta di chiese romaniche, bizantine, di architettura spontanea, parrocchie di borghi rurali ancora abitati o di antichi villaggi scomparsi, ruderi consumati dal tempo e luoghi di culto incastonati fra le bellezze naturalistiche della zona; inoltre saranno invitati a partecipare ad un simpatico concorso con la possibilità di vincere la “Guida illustrata alle Chiese Campestri del Medio Campidano”.

La mostra sarà visitabile dal 4 aprile al 31 maggio dalle ore 9.30 alle 13.00 e dalle 15.30 alle 19.00. Chiuso il lunedì.


L’Assessore
Caterina Pusceddu