domenica 12 giugno 2011

Un nuovo racconto di Pia Deidda: "Non voglio sapere"

NON VOGLIO SAPERE

Sembra tutto asettico e impersonale qui, non mi aspettavo certo un'atmosfera da ospedale. Ho sempre immaginato lo studio di uno psichiatra come un posto caldo e accogliente; boiserie alle pareti, poltrona di cuoio marrone per lui e una chaise-longue per il paziente, tende verde rassicurante alle finestre. Forse questo è solo nei film, la realtà è questa: un ospedale. O, forse, mi confondo con lo studio di uno psicanalista.

Percorro l'anonimo corridoio rivestito di igienico smalto giallino e un infermiere mi fa accomodare in una ancora più anonima sala d'attesa. «Guarda» dico fra me «nemmeno una stampa alle pareti». Che gelo. Che atmosfera algida. Che gelo psichico, certo. Mi viene in mente il termine limbo. Ecco, il limbo me lo sono sempre immaginato così, un luogo non luogo, freddo, incolore, indefinito e immobile. Come questa sala d'attesa.

Aspettando per interminabili minuti di essere chiamato mi accorgo che non c'è suono. Altresì mi rendo conto che finora non ho incontrato altri pazienti. In questo limbo sono da solo, come sospeso.

Chiudo gli occhi e cerco di rilassarmi con la pratica del training autogeno che ho imparato a gestire abbastanza bene. Penso sempre di stare in riva al mare lambito da calde tranquille onde che, con lieve sciabordio, mi accarezzano. Mi sento meglio. Quando l'infermiere viene ad avvisarmi che è arrivato il mio turno mi sento come risollevato, esco da uno stato di solitudine troppo ingombrante. Gliene sono grato.

La mattinata la passo sottoponendomi ad esami che mai avrei pensato di fare, come l'analisi del sangue, la risonanza magnetica e la PET. Mi chiedo il perché di tutto questo. Ero arrivato preparato a dover conversare solo con lo psichiatra. Mi adeguo: io sono il paziente, loro gli esperti.

Man mano che procedono gli esami clinici mi abituo meglio al luogo in cui mi trovo; mi sembra che si stia rivelando più caldo e ospitale. O è la mia capacità di adattamento che fa modificare le mie percezioni? Tutto migliora quando mi fanno accomodare in una piccola sala da pranzo; mi accorgo di non essere solo, altri pazienti occupano piccoli tavolini come il mio. Ognuno è da solo. Ci guardiamo appena, in silenzio mangiamo. Non comunichiamo fra di noi.

Forse sento più forte questo silenzio. M'imbarazza come quando si sale in ascensore senza scambiare una parola con i compagni di tragitto. Sì, sento più forte questa assenza di dialogo fra simili, io, così abituato nella mia attività d'insegnante a convivere con una viva e calda e pressante presenza umana che non toglie respiro fino a quando si dilegua fuori dal portone a fine lezione.

Mentre spizzico l'ottimo contorno di patate arrosto che accompagna la mia fettina ai ferri penso che le ore passate a scuola sono le uniche in cui non sento il mio male. Esso arriva all'improvviso dopo il suono della campana, nel momento in cui metto piede fuori sulla strada; diviene più forte dentro il chiuso della metropolitana quando osservo questa variopinta umanità stanca e assente che va. Va. Mi viene sempre in mente il dipinto di Gauguin “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”.

Il male mi accompagna fino a casa e si tramuta in una sorta di triste dolore esistenziale quando chiudo la porta ed entro a vivere nella mia solitudine. Sarà per questo che il primo gesto che faccio, ancor prima di sfilarmi le scarpe, è accendere a tutto volume lo stereo. Riempio la casa di note che volano e la saturano di una ingannevole presenza di vita. Cerco benessere, lo cerco spasmodicamente, altrimenti non vivo. Non vivo.

Mentre sorseggio la tisana che mi hanno dato al posto dell'abituale caffè arriva il dottore. Si siede davanti a me e mi guarda con un sorriso che mi rincuora. Che strano, l'aspettativa di trovarmi davanti un uomo maturo con barba e occhiali viene disattesa. E' giovane, dal viso quasi etereo e ampi e profondi occhi di un azzurro intenso dove, per un attimo, mi perdo. Mi riprendo subito, la mia razionalità non permette certi cedimenti. La mia mascolinità pure.

Se mi stesse ipnotizzando? Penso. Il dottore sembra leggermi nel pensiero «Non si aspettava un pivellino, vero? Stia tranquillo, è tutta apparenza, sono più maturo di quanto possa dimostrare. E ho delle buone credenziali, mi creda». Gli credo, come non credergli? « Se vuole guarire deve avere fede in me». «Certo» rispondo spiazzato «avrò fiducia in lei».

Lo seguo lungo il corridoio ovattato e mi fa entrare in una stanza dove ci sono solo due poltrone comode e avvolgenti e una tenda alla finestra. Tutto è rigorosamente bianco. Non era questo che mi aspettavo. Sprofondo nella poltrona che mi viene indicata e cerco di rilassarmi. «Ecco, così va bene» mi dice il dottore e il suono della sua voce mi richiama ai suoi occhi. Lo fisso, forse con troppa insistenza.

«Le sembra che questo spazio sia troppo vuoto?». «Sì» rispondo senza indugio. «Quale colore le piace di più?». «In questo periodo amo l'azzurro». Lo vedo premere un pulsante sul bracciolo della sua poltrona e, con effetto spettacolare, tutto si trasforma in vari toni che mi ricordano il mare e il cielo. Sembra di essere fra le nuvole e sfiorare le onde. Sono esterrefatto e meravigliato nello stesso tempo. Sicuramente un effetto ottico dovuto al variare della luce e della sua intensità: le tende celeste chiaro, le poltrone azzurro cobalto, le pareti azzurro polvere.

Il mio sguardo va dietro la poltrona del dottore, mi accorgo solo ora che ci sono due stampe incorniciate. Riconosco i soggetti riprodotti. Il dottore mi precede «Due dipinti della Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine a Firenze». «Sì, “Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre” di Masolino» «E “Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso Terrestre” di Masaccio» continua il dottore «Si sta chiedendo il perché di queste due iconografie nello studio di uno psichiatra». «Infatti, temi inconsueti per un qualsiasi studio medico». Il dottore mi fissa con i suoi occhi sereni e accenna un sorriso «Adesso capirà». Mi sento stranamente leggero, come rassicurato. Guardo il dipinto di Masolino. «Dica pure quello che le sta passando per la mente professore». «Penso di essere influenzato dalle mie conoscenze storico-artistiche» dico. «Non abbia timore, vada oltre, guardi con occhi nuovi, osservi da un altro punto di vista». Andare oltre. «Masolino dipinge Adamo ed Eva, prima del peccato originale, come se fossero creature idealizzate». «Vada oltre» incalza il dottore. «Sono quieti, belli, manca in loro il turbamento. Ma, se guardo negli occhi di Eva, già leggo il dubbio. In alto incombe la testa del demone tentatore. Non è un mostro, ma ha il viso come di un angelo biondo. Eva ha già in mano un pezzo del boccone del frutto dell'albero del Bene e del Male».

«Dell'albero della Conoscenza», aggiunge il dottore, o forse corregge. «Chissà se lo ha già assaggiato. No - mi correggo - non ancora. Il viso è dubbioso ma l'insieme esprime ancora serenità e armonia». «Serenità e armonia, segniamoci questi due termini, ci torneranno utili per la sua guarigione». «Serenità e armonia» ripeto di rimando. Forse incomincio a capire, ho come una intuizione. Al dottore brillano gli occhi. «Lei è qui...» «...per ritrovare la serenità e l'armonia perdute» lo precedo.

Sposto lo sguardo sulle figure di Masaccio. «Ecco dottore, il volto di Eva mi ricorda l'angoscia che mi attanaglia in tanti momenti della mia giornata». Continuo ad osservare il dipinto mentre sento lo sguardo su di me del dottore che immobile e silenzioso sembra scrutarmi. Adamo ed Eva vengono scacciati dal Paradiso Terrestre da un angelo biondo che li sovrasta , vestito di rosso e con la spada sguainata. Escono insieme, vicini, da un'alta sproporzionata porta turrita e incedono verso una landa desolata. Mi passa un brivido, adesso capisco perché, è un'immagine in cui mi rispecchio. E' la mia angoscia, è la mia solitudine, è la mia incapacità ad affrontare le difficoltà della vita che viene esternata come urlo lacerante e doloroso dalla bocca spalancata di Eva. E' il mio senso di impotenza, è la mia piccolezza, è la mia fatica, è il mio disagio di vivere che viene espresso da un Adamo curvo che nasconde il proprio tormento interiore coprendosi il volto con le mani.

«Povera umanità dolorante!» mi esce come un grido, mi sembra che la mia bocca sia atteggiata come quella di Eva, «Povera umanità dolorante di cui io faccio parte» e non mi accorgo che sto pensando a voce alta. «Perché è qui?» mi richiama il dottore alla realtà. «Soffro di attacchi di panico che arrivano improvvisi e con cadenze sempre più ravvicinate, sono stanco, sotto stress continuo, dormo poco e quando mi sembra che tutto sia passato arriva il male peggiore, lo spettro che incombe su di me infido, la depressione».

«Cosa sente nelle due circostanze?». «Nella prima mi sento soffocare, il ritmo del cuore aumenta, sudo copiosamente pur avendo brividi di freddo. Ho paura. Paura. Un senso di folle paura che mi attanaglia. Ho paura di morire. Sento su di me tutto il peso del mondo. E' come se percepissi il male del mondo». «Il male del mondo» ripete il dottore guardandomi con commozione «Il male del mondo. Aggiungiamo anche questo agli altri termini da ricordare, li riprenderemo. E quando si sente depresso, cosa prova?». «Nulla mi attrae, tutto mi rattrista, piango nascosto nel mio mondo, chiudo tutte le serrande, tiro le tende, posso anche non uscire per giorni, non mangio, sento una grande insormontabile tristezza, un dolore dell'animo, certe volte penso di farla finita, di porre fine a questa sofferenza dell'animo. Posso fare una considerazione? Azzardare un parallelismo?». «Faccia pure, si senta libero di esprimersi». «E' come se sentissi, anzi no, come se vivessi il male del mondo. Tutto il male che grava sul mondo».

Il dottore, fino ad allora rimasto immobile, fa un gesto inaspettato. Alza una mano all'altezza del mio viso e ne percorre, senza sfiorarlo, i contorni. Sento un calore provenire dalla sua mano. Un senso di calma mi pervade. E' come uno scudo che protegge dalle emozioni negative che albergano in me, da sempre.

«Sentire, vedere, percepire, vivere il male del mondo. Si è mai chiesto cosa mai possa significare quell'albero inviolabile e intoccabile dell'Eden, professore? Cosa significa il peccato originale?». «L'uomo che vuole superare Dio, che non vuole stare relegato in un mondo di perfetta serenità e armonia dove non ha però la possibilità di libera scelta, non ha il libero arbitrio. Vuole essere potente come Dio». «Potrebbe essere una spiegazione molto ragionevole. Ma se andassimo oltre?». «Andare oltre. Cerco di capire cosa voglia dire tutto questo con la mia patologia». «La mia presenza qui non è per fare una diagnosi; lei è persona acuta e attenta, ha già tratto le conseguenze. Io sono qui per farle capire cosa sovrintende alla sua patologia. Metterla a conoscenza...». «No, si fermi, ho paura. Non vada avanti. Perché devo andare oltre? Perchè semplicemente non mi cura? Mi dia le medicine giuste dottore. Mi bastano, mi creda». «Non vuole andare oltre?». «No dottore, la prego mi lasci nella mia ignoranza. Non mi dia da mangiare dell'albero della conoscenza. Perchè penso di aver già varcato un limite già da tanto tempo...». «Lei è una persona molto intelligente professore e abbracciando da tempo il libero arbitrio ha diritto alla sua fetta d'ignoranza. Avrà le sue medicine».

«Posso chiederle un'ultima cosa?». «Mi dica».« Amo anche il verde. Il verde asseconda la mia parte ancora bambina; quella che fino ad adesso mi ha salvato la vita». D'improvviso la stanza si irradia di un verde cangiante, le tende svolazzano come fili d'erba mossi dal vento in un prato. Solo adesso mi accorgo che la finestra è aperta ed entra un rumore assordante e infernale dalla strada. Guardo Eva con il pezzo del frutto proibito in mano e mi pare che mi faccia l'occhiolino. Un pezzo del male cosmico ce lo siamo costruiti noi uomini, penso da solo mentre il mio udito è concentrato sul frastuono che arriva da sotto. Guardo per l'ultima volta il dottore. «Forse ho capito, ma non mi dica nulla dottore, la prego. Veramente, mi creda, non voglio sapere!».


Il dottore vede sul monitor il paziente uscire dall'atrio e si rivolge al suo collega di turno: «Un altro che non ha voluto conoscere». «E pensare che l'uomo è convinto di conoscere il segreto della vita, ma s'inganna». «E vuole vivere in questo inganno». «Il Creatore lo sapeva e ha avuto compassione della sua disperazione quando scoprì cosa c'era lì fuori una volta uscito dall'Eden. Quella terribile spaventosa profondità cosmica, dove le forze del male e del bene si fronteggiano in un eterno divenire, gli era stata celata fino ad allora per proteggerlo».« Creatura indifesa l'uomo. Ma caparbia, ostinata, orgogliosa». «La serotonina, la noradrenalina, la dopamina, la melatonina, le endorfine furono create per l'uomo a sua protezione».« E sono un dono che il Creatore fece alle sue creature più amate quando le vide in preda all'agghiacciante tormento esistenziale in quella landa desolata e angosciata del loro cervello». «Eh sì, fu terrificante per l'uomo scoprire cosa albergava fuori dall'Eden. Esserne a conoscenza».


© 2011 Pia Deidda


Monica Arianna Zanetti, traduttrice

Ciao Pia!

Ecco il responso dell’oracolo. Ops… dell’editor… Volevo dire… la mia opinione.

Una domanda mi sorge spontanea: hai avuto esperienza diretta con la depressione e il mondo della psichiatria o hai compiuto degli studi in materia? Lo descrivi con dovizia di particolari e con competenza.

Il tuo stile è asciutto, hai un ampio potere di sintesi (ahimè non ce l’ho): questo non esclude la capacità di cogliere l’essenziale ed il particolare e di riuscire a raccontarli in modo puntuale e senza inutili orpelli, con una prosa curata e un sapiente uso delle figure retoriche.

Hai trattato un tema spinoso con destrezza e (a mio parere), con la tua abile conclusione, lasci al lettore il “suo” libero arbitrio: ognuno può decidere quale sia il “suo male”. Quale “male” abbia trovato fuori dell’Eden.

Dulcis in fundo… Saresti un’autrice difficile da tradurre, non tanto per le scelte lessicali o stilistiche, quanto per i concetti espressi.

Immagina questo commento in una quarta di copertina…





1 commento:

Unknown ha detto...

Uno scritto che "prende" e rapisce, a tratti un po' difficile e scomodo, con spunti di realismo che mostrano la conoscenza da vicino della situazione di disagio psicoaffettivo. L'incipit affabula ed intriga, con quell'ambiente ricettivo idealizzato - prima freddo e poi più caldo e quasi surreale - che tutti i medici professionisti vorrebbero avere per sé. Il sottile slittamento dall'impersonale incolore al personalizzato colorato dà quasi la misura dell'effetto terapeutico di un Pharmakon (nel té, forse? il sospetto s'insinua e resta ad aleggiare, insoddisfatto...), oppure dell'inizio dell'imprinting nascente tra medico psichiatra e paziente... Malgrado il timore oscuro,la riluttanza istintiva, le resistenze inconsapevoli.
Proprio a quella "conoscenza" (L'albero! Il frutto! La cacciata dal Giardino nell'Eden!)che il paziente teme di acquisire, quando dichiara di "non voler sapere", per l'evidente timore di soffrire ancora di più...
Attraverso una serie di chiari simbolismi, ormai universali e radicati nella nostra Coscienza Comune, ecco la descrizione impressionista di un piccolo dettaglio personale, una scheggia di sofferenza quotidiana ed anonima, ma proprio per questo umana e sincera.
Ognuno soffre da solo.
Ma c'è davvero qualcuno che può aiutarci, se soltanto vogliamo essere aiutati: qualche volta, basta anche solo un racconto...
Come questo.